Mario Tamponi Zurück
6 Uragani di farfalla …e la minaccia invisibile L’idea l’aveva folgorato leggendo in un libro delle meraviglie una considerazione che sulle prime gli era sembrata strampalata: un volo di farfalla in un qualsiasi punto del globo può determinare un uragano in un’altra regione lontana. Romoletto sospettò poi che sotto ci fosse una geniale verità scientifica. Glielo confermò un amico matematico che proprio in quel periodo si misurava con le stravaganze della statistica: uno spostamento d’aria insignificante provoca a distanza fenomeni metereologici sconvolgenti se, invece di infrangersi e perdersi in forze che gli resistono, entra in sintonia con esse e calamitandole le organizza. In natura questo fenomeno di sinergia simmetrica si verifica con la rarità di una vincita al superenalotto in fase di luna storta, ma Romoletto intuì che quella probabilità poteva essere individuata, circoscritta, modificata, rafforzata, indirizzata. La condizione preliminare era la conoscenza di tutte le concomitanze atmosferiche – in cui inserire il volo di farfalla – mediante basi d’osservazione permanente dislocate in zone strategiche e collegate in tempo reale con un software meticoloso. Per l’area mediterranea, atlantica, nordamericana e dintorni Romoletto attinse in Internet informazioni, grafici e immagini satellitari, e fissò le costanti delle correnti marine ed eoliche, di cicloni ed anticicloni, il variare delle temperature delle acque in superficie, le interdipendenze tra fasce tropicali ed equatoriali, la periodicità dei fattori atipici. E così sul suo atlante elettronico emersero le autostrade e i viali atmosferici, i fiumi e i torrenti caldi e freddi che percorrono i mari, l’oscillare dei loro argini. Ovviamente non aveva risorse per dislocare osservatori con impianti e personale, ma su quasi l’intero pianeta disponeva di tanti amici grazie alle sue molteplici attività passate e al carattere gioviale. Ne scelse una decina in località che il computer indicava come nevralgiche e complementari. Collegò in rete i loro PC domestici, che munì di altrettanti apparecchietti sui tetti per recepire e trasmettere elettronicamente alla centrale – l’appartamentino di Romoletto sul Gianicolo accanto al Vaticano – le informazioni rilevanti: la pressione-temperatura-umidità dell’aria, la forza-velocità-direzione dei venti e delle correnti marine, la configurazione lineare, sinuosa o zigzagata del loro propagarsi. Per l’osservazione sull’Atlantico il programma gli suggerì i punti precisi su cui poter attingere i dati mediante il sistema GPRS-UE e le rilevazioni ufficiali; lo stupiva la leggerezza con cui certi istituti metereologici rendevano possibile a chicchessia l’accesso via Internet a materiale potenzialmente esplosivo. La partecipazione degli amici al progetto era del tutto passiva e col tempo essi si sarebbero persino dimenticati degli apparecchietti sui tetti, che si mimetizzavano con la natura grazie al muschio e ai nidi degli uccelli migratori; nessuno sospettava che sotto ci fosse un piano preciso, tantomeno quello degli uragani con le farfalle. I lepidotteri – così Romoletto chiamava affettuosamente le farfalle fragili e timide che frequentavano il giardino sottostante – sembravano storditi dal nettare dei fiori e dagli umori zuccherini degli alberi da frutta, ma anche consapevoli della missione a cui per volontà superiore potevano essere destinati. All’avvicinarsi di ogni ora x lui ne catturava uno, quello più accattivante e civettuolo, e lo liberava poi dal balcone del salottino nella direzione esatta e nell’attimo che il computer scandiva con un gong penetrante. Con fotografie, fotomontaggi e bozzetti aveva analizzato le ali di questi esserini pavoneggianti, le anteriori e le posterieri, le loro setole e i lobi di collegamento, le scaglie colorate che rigavano l’aria in vibrazioni carezzevoli. Per il migliore degli effetti preferiva le eteroneure, perchè la complementarietà delle loro ali, diverse per forma e disposizione delle nervature, garantiva una spinta più densa e dosata. Da bambino lui ne aveva collezionate parecchie spillandole o incollandole crudelmente sulla bacheca accanto alla scrivania; ora le venerava come collaboratrici preziose e solidarizzava persino con le loro famiglie, bruchi compresi. Nonostante il passato da sessantottino, Romoletto non ce l’aveva con gli USA; non era colpa sua se sotto il profilo metereologico le coste orientali nordamericane si prestavano più di altre ad effetti spettacolari. Proprio lì di uragani cominciò a provocarne parecchi, compreso il Messalina, il più raffinato, che sconvolse il litorale della South Carolina alla persistente velocità record di 399 km orari. Con la pratica Romoletto affinò la tecnica per la cura e il controllo dei dettagli. Così, pur potendo rendere devastanti le perturbazioni estendendole per migliaia di chilometri, preferiva circoscriverle al massimo e nel farlo si compiaceva di una precisione da chirurgo al laser. Mai però rivelava d’esserne lui l’artefice; si guardava bene dall’annunciare i suoi uragani a chicchessia, anzi al loro verificarsi si mostrava sorpreso e persino sgomento per non esporsi alla forca dei perbenisti della pubblica opinione. E poi nessuno doveva appropriarsi dell’idea e della tecnica! Finchè restavano nelle sue mani era possibile garantirne il controllo; nelle mani di inaffidabili o comunque di molti invece chi avrebbe potuto sottrarle all’anarchia? Neppure a lui erano più chiare le ragioni che l’avevano portato a cominciare. Dopo i primi successi diventava sempre più puntiglioso: ogni nuova operazione nasceva dal bisogno di ulteriori conferme e dalla legittima ambizione a far meglio. Solo più tardi si insinuò anche una motivazione ideale. Gli dava fastidio la presunzione d’onnipotenza di certi leader dell’umanità, di quelli che credono d’aver assoggettato a sé tutti e tutto; Romoletto intendeva partecipare attivamente alla rivincita della natura. Solo che con i suoi uragani avrebbe voluto colpire gli arroganti e invece ogni volta doveva prender atto d’aver danneggiato soprattutto deboli e poveri, mentre ricchi e potenti trasformavano agevolmente il disastro subìto in nuove opportunità di profitto. Pensò allora di affinare la mira inserendo nel software accanto alle coordinate atmosferiche anche quelle sociali, una specie di quarta dimensione per uragani più intelligenti e giusti. Romoletto non produceva soltanto tempeste lontane; ormai sapeva dosare e praticava anche il cosiddetto effetto biliardo, la tecnica del rimbalzo e della scivolata per creare fenomeni di ritorno. Era semplice: esaminava perturbazioni in arrivo e per bloccarle, potenziarle o comunque modificarle mandava loro incontro flussi paralleli o antagonisti. E così il temporale diventava più temporale, il solleone più solleone, oppure l’uno o l’altro si trasfigurava in una delle sue molteplici varianti a seconda delle necessità o dei gusti. Quando a cicloni Romoletto opponeva anticicloni e viceversa, non sempre lo scontro era frontale; poteva essere tangenziale, obliquo, di retrovia. Con una strategia d’aggiramento era riuscito a inibire l’anticiclone delle Azzorre tenendolo sospeso sull’Atlantico e determinando così sull’area euromediterranea periodi insolitamente lunghi di afa e siccità. Si divertiva poi a sentire le interpretazioni scervellotiche degli esperti e quelle emotivamente apocalittiche della televisione e della gente. Non si faceva scrupoli quando molti, soprattutto anziani, soffrivano più del necessario per il torrido prolungato; lo riteneva inevitabile per scopi umanitari superiori. Qualcuno dei suoi esperimenti minori però sembrava piuttosto gratuito. Si creava il cielo a pecorelle o a coda di gatto, oppure lo spruzzava di bambagia o lo striava di rosso per capricci meramente estetici. E lo tergeva in ogni suo angolo se una notte voleva donarsi alla contemplazione delle stelle; magari lo faceva attraversare da uno o due nuvoloni frettolosi ma carichi di fulmini da cortocircuito che orientava contro le centrali elettriche. Con l’oscuramento della città lo spettacolo cosmico diventava più suggestivo. Romoletto non era neppure esente da dispettucci. Come quello di disseminare vuoti d’aria quando sapeva di conoscenti antipatici e timorosi in procinto di prendere l’aereo; finiva col convincersi poi che il suo cinismo fosse a fin di bene, nel senso che le turbolenze li avrebbero esercitati a vincere la paura dell’aereo. Quando però a volare era lui, predisponeva il sereno assoluto su tutta la rotta, senza un batuffolo di nuvola o un cenno di brezza. Talvolta sabotava partite di calcio e altri spettacoli all’aperto con improvvise piogge torrenziali. Altre volte invertiva il corso dei fenomeni annunciati solo per gettare nel ridicolo metereologi in doppiopetto e le loro boriose previsioni del tempo spacciate per infallibili. Romoletto fu scosso dall’improvvisa scomparsa dell’amico matematico, quello che gli aveva reso credibile l’idea originaria e fornito le formule per realizzarla. Questi era noto per la sua tendenza all’astrazione; per lui, nella vita, importante era solo la matematica che spiega i fenomeni, mentre i fenomeni spiegati erano solo banali esemplificazioni per il popolino. Anzi, la realtà era già tutta nella logica dei numeri, ben più perfetta e completa delle sue molteplici proiezioni nel concreto mondo materiale. Nella matematica, sosteneva, ci sarebbe l’intera creatività, l’ordine delle simmetrie, l’armonia delle equivalenze, l’aritmetica d’ogni trasformazione; solo in essa l’invisibile diventerebbe visibile e il tempo eternità, la realtà si concilierebbe con l’improbabile, i comportamenti sociali assumerebbero trasparenza al di là di ogni libertà individuale. Con queste tesi rigorose, che aveva enunciato in conferenze e pubblicazioni, era riuscito a sgomentare gli stessi colleghi di studio che preferivano tenere i piedi in due staffe. La sua fede l’aveva testimoniata anche nella quotidianità: i numeri erano i suoi migliori amici, le equazioni ordinarie lo accompagnavano come angeli custodi, le formule universali lo illuminavano come spirito del mondo. I testimoni diretti raccontano di averlo visto avvicinarsi al trapasso come verso un’equazione singolare in un oceano algebrico, lasciandosi però cogliere dalla costernazione quando l’ultima fitta polmonare gliel’ha reso doloroso, maledettamente doloroso. Per mesi la sua morte continuò a piangerla solo Romoletto che, pur facendo uso dei numeri, teneva i piedi per terra e la testa negli uragani. Non eccedeva in metafisica, ma del defunto amico condivideva la fede nella superiorità del minuscolo sul macroscopico, come la farfalla che scatenava le furie della natura eloquentemente dimostrava. Per distrarsi dal lutto pensò d’andare a godersi un sistema di tornadi incrociati che aveva confezionato contro il tratto costiero tra Portsmouth ed Elizabeth City fino a Virginia. Lo aveva concepito su Washington, ma poi lo aveva deviato a sud utilizzando a mò di cuscinetto una corrente ascensionale sull’arcipelago delle Bermuda; ci teneva a risparmiare la Casa Bianca e il Campidoglio in un momento di particolare emergenza politica. Lo spettacolo voleva vederselo dall’occhio del ciclone. Prese l’aereo con un giorno d’anticipo e fece triangolo su Toronto per non incrociare la perturbazione ad alta quota in arrivo dall’Atlantico. Atterrato a Cincinnati, raggiunse in treno una fattoria situata nel previsto epicentro e con eccitazione paterna attese l’arrivo frontale del fenomeno. Ma quando Marilyn – così l’avevano già denominato gli esperti – s’avvicinò, sembrò non riconoscere il proprio genitore incestuoso, ormai smilzo e rugoso. Il vortice violento e i mulinelli ascensionali risucchiarono anche Romoletto con i frammenti della casupola e schegge di architravi affilate come spade, aguzze come frecce. Una gli si conficcò nella gola senza strappargli un gemito; la vitalità di quella sua creatura lo colmava di fierezza. Più tardi venne sommariamente annoverato tra le vittime disperse. Non è certo che Romoletto sia passato a miglior vita; potrebbe essersi ripreso in qualche pronto soccorso, nessuno lo sa. Forse è stato proprio lui a far perdere le tracce per cominciare altrove una nuova esistenza. Non sappiamo quindi se agli uragani ordinari oggi continuino ad aggiungersi i suoi; impossibile distinguerli, anche se le stranezze di alcuni giustificano qualche sospetto. Comunque non c’è ragione per escludere che prima o poi un tizio bizzarro e anonimo come lui o tanti altri insieme giungano a riprodurre lo stesso software e ad attivarlo per continuare a turbare la pace americana e quella di altri paesi del pianeta – con un computer, una rete di amici ignari e centinaia di farfalle felpate e variopinte. Mario Tamponi