Mario Tamponi Zurück
Valanga di enigmi in pillole quotidiane e in ordine sparso – 1. puntata Non esisto per caso. Giocando al superenalotto la probabilità di vincere è un numero finito, ad esempio 1 su 100 milioni. Nell’evoluzione umana, animale e cosmica invece il mio esistere dipende dalla vita di tutti i miei avi e dai loro incontri, dall’avvicendarsi di tutti i miei progenitori animali e dai loro incontri, dall’apparire prodigioso della prima cellula con tutti gli equilibri instabili del suo futuro, dal big bang di 13,7 miliardi di anni fa e dall’emergere degli elementi e delle forze fondamentali con certi valori e non con altri, dalla loro espansione verso la formazione di galassie, di sistemi solari, della nostra incredibile terra. Eppure io oggi esisto, nonostante il numero delle probabilità di non esistere sembri essere infinito. Ma allora è un non- senso (anche matematico) parlare di caso. Più logico sarebbe parlare di mistero, comunque di dono infinito. Al vertice del tempo. La scienza ci dice che il nostro universo proviene dal suo big bang. Se il tempo fosse lineare, come il buonsenso comune ci suggerisce, nell’esistere di oggi noi saremmo la congiunzione di tutto il passato cosmico di miliardi di anni col suo futuro di chissà quanti ancora. Significa che tutti quegli anni passati, inimmaginabili nella loro estensione e così ricchi di evoluzione, culminano nel loro presente, che coincide col nostro. Eppure non ci pare di essere così importanti da collocarci al vertice del tempo, proiettato verso un avvenire da vertigini. Comunque il tempo lo si voglia spiegare – fisicamente curvato con lo spazio secondo Einstein o esistenzialmente come presente dell’anima secondo Sant’Agostino – è difficile lasciarci tranquillizzare da qualsiasi tentativo di risposta, liberarci da questo incubo fantastico. Viaggio senza soste e deviazioni. Viaggiando in autobus, metropolitana o treno per arrivare a destinazione dobbiamo fermarci prima in tante stazioni intermedie che sono mete di altri passeggeri, ma non ancora la nostra. Forse esiste un mondo in cui autobus, metropolitane e treni sono diretti per tutti, si fermano cioè solo alla meta di ognuno senza che questa sia stazione di passaggio per altri. Non si capisce come ciò possa accadere, ma poco importa. Eppure una cosa del genere succede realmente nella nostra vita, e non perchè ce lo dica la fisica quantistica con le sue stravaganze. Nel mondo conviviamo con miliardi di persone, note e ignote, vicine e lontane; siamo intrecciati con loro, strettamente dipendenti e influenti, e con loro percorriamo sempre la nostra vita personale senza soste o deviazioni superflue. Da aggiungere che in questo nostro mondo la mia meta non è solo il mio capolinea, lo è anche l’intero viaggio. Sono il centro dell’universo. Lo sono anche tutti gli altri. Ma com’è possibile che lo siano in tanti se il centro, per essere centro, dev’essere unico? Il fatto è che ognuno di noi non è accanto agli altri, ma in ogni altro. Nel mondo umano la moltitudine dei centri – come la fisicità e la nostra immaginazione ce la raffigurano – è illusione ottica. Il fatto che esiste un unico centro, anche se per ogni altro diverso, conferisce a ciascuno la sua esclusività, la sua inviolabile grandezza, che è insieme singolare e plurale, individuale e universale. Se così non fosse, se cioè i centri fossero per assurdo delle entità fisiche, l’uno accanto all’altro eppure con visuali gravitazionali diverse, per connetterli nell’unità ci si dovrebbe confrontare con una inverosimile realtà a miliardi di dimensioni pari al numero dei nostri contemporanei (e forse anche dei loro antenati). E di ognuno dovremmo tener conto non solo dei fatti e delle azioni, ma anche delle sfumature di tutte le opzioni, intenzioni, fantasie… Essere e avere. Il mondo dell’avere appare come insieme di cose concrete, da toccare e possedere, in contrasto col mondo dell’essere, che sembra evanescente. E invece è proprio nell’essere che anche l’avere trova il suo senso e consistenza. Le cose sono solo immagini sfumate che vengono e vanno fino a dissolversi, sono palcoscenico della successione degli eventi in cui l’essere si esprime come soggetto di storia individuale e collettiva. Le cose non hanno una storia, partecipano solo della nostra. Dimensioni relative. Macro e microcosmo non coesistono come se fossero orizzontalmente o verticalmente contigui. Nelle loro apparizioni molteplici sono reciproci, interdipendenti. Sono lo stesso universo osservato da punti di vista diversi. Ogni particella nanometrica, che sembra non riconoscere il tempo che scorre e il principio di causalità che ne collega gli eventi, si relaziona col tutto e lo condiziona. Il macro è nel micro e il micro nel macro. Difficile da capire, ma è qualcosa che la quotidiana tecnologia elettronica ci costringe ad accettare senza obiezioni. Statua e organismo. Un oggetto fisico della creatività umana, ad esempio una statua, nasce dall’esterno, dove anche si forma e finisce. Ogni essere vivente invece nasce dall’interno, genetico e cellulare, che contiene in germe la dinamica dei processi futuri, anche dell’esterno come involucro protettivo e come immagine per comunicare col mondo e con gli altri. Ma anche una statua di Michelangelo o del Canova, senza interno e senza crescita, è pur sempre metafora del bello e del buono, di una sfera cioè di cui anche il mondo della vita ha bisogno per sopravvivere. Prima l’uovo o la gallina? Ognuno di noi è spirito personale, pensante e libero, che consolida la memoria del passato nella progettualità del presente verso il futuro; ma siamo anche materia cosmica che si raffigura di trascendersi nello spirito. Come risolvere questo dualismo, cioè di chi nasce prima: l’uovo o la gallina? Nasce prima lo spirito che si materializza o la materia che si spiritualizza? La logica ordinaria non offre una risposta. La scienza naturale e la filosofia la cercano con ottiche diverse, ma quando non ne sono consapevoli degenerano nella reciproca conflittualità. La soluzione può venire dal fatto che, restando nella metafora, l’uovo e la gallina nascono assieme. Io e l’ambiente. L’uomo fa l’ambiente o è fatto dall’ambiente? Singolare è che l’uomo e l’ambiente nascono assieme: l’uomo è nell’ambiente e l’ambiente nell’uomo. È come dire – nel linguaggio simbolico-tradizionale – che l’uomo è fatto di “anima e corpo”. Io e la società. Viene prima l’individuo o la società? Il fatto singolare è che la società è nell’individuo (come persona) in quanto l’individuo esiste nell’essere relazione con gli altri. Quindi l’individuo è anche nella società: come comunità etica, non come moltitudine. È un fatto che, separando i due poli (io e società), ognuno si dissolve nell’astrazione… ma con risvolti politici da catastrofe. So di non sapere. Il sapere e il non-sapere sono antinomici? Sono soprattutto interdipendenti. Il fatto singolare è che soltanto chi sa, sa di non sapere. Chi crede di sapere è ignorante, realmente. Cioè, chi non riconosce i limiti del suo sapere falsifica con ciò stesso quel poco che sa, in quanto lo priva del suo contesto di appartenenza, che è l’inaccessibile totalità. Rispetto al tutto la differenza tra uomini di diverso livello culturale è infinitesimale, quasi irrilevante. Energia e materia oscura. L’uomo scientifico crede nelle proprie certezze sulla natura e sul cosmo, e l’ottimismo cresce col moltiplicarsi delle scoperte. Recentemente ha dovuto però ammettere che l’universo finora conosciuto costituisce solo il 5% del totale. Il restante 95% dovrebbe essere materia ed energia oscura, ipotizzate per spiegare la rivoluzione delle galassie attorno al loro centro e l’espansione in accelerazione vertiginosa dell’intero cosmo. La scienza postula materia ed energia oscura senza neppure immaginarne il dove e il come. Se un giorno riuscirà a scoprirle e capirle dovrà forse rivedere interamente le teorie finora date per certe. I viaggi della conoscenza. Normalmente si crede di capir meglio andando di persona sul luogo delle meraviglie, un pò come un commissario su quello del delitto. Ma non è sempre così. Non è vero che per comprendere il nostro cosmo dovremmo recarci fisicamente in questo o quel sistema planetario, in questa o quella galassia, al margine dell’orizzonte degli eventi di un buco nero, al cospetto di una supernova che deflagra, alla soglia del big bang. Spesso molto meglio ne capisce i fenomeni e l’insieme lo scienziato alle prese con geniali modelli di fantasia o il matematico con formule sublimi come la musica. Così non è sempre vero che collezionando viaggi turistici si riesca a capire il mondo meglio di chi sa scoprire il fascino della propria regione o anche del proprio giardino. Girovagando di continente in continente si brucia tanto cherosene, ma non si colgono necessariamente l’intensità e la vastità, perchè la nostra visuale è ristretta, incredibilmente ristretta. Per ampliarla dovremmo preoccuparci nei nostri viaggi di percorrere anche la nostra interiorità e di coltivare in essa il rapporto col mondo umano di altre geografie anche solo confinanti. Buono e giusto. La giustizia e la bontà – nel senso della loro profondità etica, non della tecnica legale – sono il contrario del loro opposto? Il fatto singolare è che anche chi è autore di cose presumibilmente buone e giuste, se crede di essere buono e giusto, per ciò stesso cessa di esserlo. Il buono e il giusto presuntuoso non opera per gli altri ma per sè stesso: è egocentrico e narcisista, mentre la relazione attiva con gli altri è principio e metro di ogni bontà e giustizia. Identità di finito-infinito. Secondo una certa logica l’universo non può non essere finito; secondo un’altra, parallela e altrettanto verosimile, l’universo è infinito. Nel mondo fisico Einstein concilia il dualismo (l’universo è finito-infinito) con la curvatura spazio-temporale: un insetto che percorra la superficie di un grande globo finito camminerebbe all’infinito. Ma questo modello esemplificativo è carente perchè solo spaziale, mentre la realtà è inscindibilmente spazio- temporale; per uniformare il modello alla realtà dovremmo disporre di una immaginazione a quattro dimensioni. Eppure quel modello carente potrebbe valere da metafora della reale identità di finito-infinito che sperimentiamo continuamente nel nostro universo esistenziale. È proprio vero che l’infinito non esiste? Nella Bibbia l‘Ecclesiastico esordisce: „I granelli di sabbia sulle rive dei mari, le gocce della pioggia, i giorni di tutta la storia, chi potrà contarli? L’altezza del cielo, l’estensione della terra, la profondità degli abissi chi potrà mai esplorarli? Uno solo possiede la sapienza: il Signore.“ Questo modo di vedere viene contestato dal ricercatore quantistico Rovelli – di per sè brillante divulgatore – col semplice rilievo che invece (!) sarebbe possibile contare il numero dei granelli di sabbia non solo sulle rive dei mari, ma anche in tutto l’universo. „Ciò che appare infinito“, precisa Rovelli in un suo bestseller, „non è altro che qualcosa che non abbiamo ancora capito o contato. Infinito in fondo è il nome che diamo a ciò che ancora non conosciamo. La natura sembra dirci, quando la studiamo, che non c’è nulla di davvero infinito. È necessario quindi un grido d’orgoglio della ragione (…) che non rinuncia a superare la propria ignoranza con la scienza senza delegare ad altri la sorgente del sapere.“ Fine della citazione. L’infinito qui in questione rientra nell’ambito dell’universo fisico e della sua matematica; estendere quella logica all‘intera realtà è un falso filosofico. Ma limitiamoci ora alla sola dimensione fisica, alla considerazione cioè che l’infinito non esisterebbe perchè i granelli di sabbia dell’intero universo sarebbe possibile contarli: elevando semplicemente 10 ad una certa potenza, supponiamo alla 60esima. Se poi lo eleviamo alla 123esima potenza potremmo contare il numero degli atomi dello stesso universo. Se a quest’ultima potenza aggiungiamo un solo zero, disponiamo di un numero decisamente più grande. E allora, per istinto di onnipotenza, sfruttiamo l‘opportunità che la magia matematica ci offre continuando a maggiorare quella potenza: invece di 123 scriviamo 123 miliardi, che è un numero stratosferico, sempre finito, ma senza alcuna corrispondenza con una qualsiasi realtà data o solo ipotetica. Sarebbe possibile andare oltre accrescendo ulteriormente di zeri quel numero di fantasia, magari mettendone uno al secondo per tutti i giorni della nostra vita. Il risultato sarà sempre un numero finito, ma di una matematica impazzita. Questa follia – praticata per la presunzione di poter negare l’infinito – si ripete ogni volta che crediamo di poter applicare la logica della fisica e della sua matematica alle dimensioni dell’esistere e delle sue metafore, profonde e insondabili come gli oceani. È una follia analoga a quella di tanti scienziati che per autosuggestione credono quasi di essere inventori o creatori delle meraviglie che semplicemente e affannosamente scoprono nel mondo – e nella loro mente – dalle sorprese infinite. Guardare lontano per sentire dentro. Per raggiungere il nostro sistema solare la luce dall’Alfa Centauri, la stella (binaria) a noi più vicina, impiega 4,36 anni. Se oggi quindi dalla terra osserviamo l’Alfa Centauri, la vediamo com‘era 4,36 anni fa. Guardare nello spazio significa viaggiare nel passato; e la luce, che è il veicolo (visivo) più veloce e invalicabile, lo misura. Anche un ipotetico osservatore da un pianeta dell‘Alfa Centauri vedrebbe nel suo „ora“ la nostra terra com‘era 4,36 anni prima. Nel firmamento abbiamo quindi una panoramica stellare tutt’altro che piatta; con le stelle vediamo un intreccio incredibile di passati diversi. Puntando un telescopio terrestre o satellitare sul centro della nostra Via Lattea, che da noi dista circa 28.000 anni luce, ci inoltriamo in un passato di 28mila anni fa. E viceversa. Oggi con telescopi a vari tipi di onde, della stessa famiglia e velocità della luce, è possibile attraversare il pulviscolo cosmico e spingerci fino a profondità estreme. Osservando una zona cosmica, ad esempio, a 5 miliardi di anni luce vediamo quel passato; e da quella distanza il solito osservatore immaginario rivolto verso di noi vedrebbe la nostra nebulosa prima ancora della formazione del nostro sole e del suo sistema planetario. Aumentando le distanze, col rassomigliarsi degli sfondi cosmici reciprocamente osservati, ci diventa più naturale capire che viaggiare nello spazio significa anche viaggiare nel nostro tempo profondo, dentro di noi. Quando con telescopi ancora più potenti e sofisticati arriveremo – come gli astrofisici e noi auspichiamo – a oltre 13 miliardi di anni luce, vedremo l‘universo poco dopo il big bang. È come dire che da laggiù analoghi osservatori rivolti verso di noi vedrebbero lo stesso universo poco dopo lo stesso big bang, che è l’unica origine del nostro unico cosmo, allora più piccolo di un odierno atomo. Le reciproche distanze, apparentemente enormi, incrociandosi si annullano – e con le distanze anche i tempi – nell’unica realtà di quel minuscolo „atomo“, di per sè non grande nè piccolo perchè – contenitore del tutto e non contenuto da nulla – è al di fuori di ogni termine di confronto. Ciò significa che parallelamente in una dimensione non spaziotemporale noi saremmo entrati nell‘intimo del nostro essere, delle nostre origini e del nostro destino. Il passato nella coscienza. Scienziati misurano nei dettagli il passato di miliardi di anni fa e frazionano certi tempi, ad esempio subito dopo il big bang, in miliardesimi di secondo da riempire di eventi. Glielo consente la fenomenologia matematica, di per sè affascinante, ma con risultati non sempre coerenti con la logica scientifica (Einstein, Planck) e comunque surreali sotto il profilo filosofico e del buonsenso comune. Perchè, se non ci fosse la coscienza umana, tutto quel tempo cosmico sarebbe muto, inesistente, come quello di un ipotetico universo parallelo che non comunica con noi e con nessuno. È quindi dalla nostra coscienza che bisognerebbe partire per raffigurarci a ritroso il percorso del passato cosmico, e non illusionisticamente – come generalmente si fa – da quel passato remoto e poi sempre più prossimo per arrivare alla nostra coscienza come presunto prodotto di quello stesso passato. Ancora. La coscienza umana non è un contenitore collettivo, stabile e continuo. La coscienza collettiva si basa su quella individuale, interrotta da dormiveglia e da sonno profondo, da amnesie… e con modelli conoscitivi e interpretativi di culture diverse, casuali e relative. Nella coscienza di ognuno si conserva quel frantumato passato prossimo e remoto; ma non quando quella stessa coscienza lo ignora o suppone di poterne fare a meno. Di fatto la stragrande maggioranza dell’umanità ne fa a meno e non crede per questo di vivere peggio! Prossimamente ritorneremo con altri enigmi! Sono molti perchè la realtà, la nostra, è complessa e misteriosa. Importante è esserne consapevoli ed è opportuno pensarci almeno una volta al giorno. Mario Tamponi